In molte palestre e studi di yoga, l’immagine comune è quella di corpi flessuosi in posizioni impegnative, elegantemente fotografati per Instagram. Ma dietro a queste rappresentazioni c’è un aspetto che spesso sfugge: lo yoga nasce come pratica aperta a ogni tipo di corpo e condizione, senza gerarchie o standard estetici. Più che un’attività fisica, è un percorso che parte dal respiro, adattandosi alle capacità di ognuno senza pretesa di perfezione. Il motivo per cui questa disciplina continua a coinvolgere persone di ogni età e forma è proprio nella sua anima inclusiva, capace di superare il giudizio legato all’aspetto esteriore. Un fenomeno che in molti notano soprattutto in contesti urbani, dove la diversità dei corpi è ampia e sempre più alla ricerca di spazi autentici dove esprimersi.
Lo yoga oltre le forme standard: una pratica che si modella sul corpo
Uno dei pilastri dello yoga è il suo radicamento nel respiro, una funzione universale che accomuna tutti gli esseri umani. T.K.V. Desikachar, maestro riconosciuto nel mondo yoga, spiegava chiaramente che chiunque può praticare yoga perché chiunque può respirare. Questa affermazione smantella l’idea che la disciplina sia riservata a chi riesce a riprodurre con precisione asana complesse o a mantenere parametri estetici di agilità e forma fisica. Piuttosto, lo yoga si costruisce su una filosofia che sottolinea l’adattamento continuo, mettendo al centro la persona nella sua unicità. Il percorso si rivolge a tutti: dai più giovani agli anziani, da chi ha una mobilità ridotta a chi cerca un approccio spirituale prima ancora che fisico.

Un aspetto che molti sottovalutano è l’impatto che l’atteggiamento mentale ha sulla pratica. Se si avvicina lo yoga con il desiderio di performare o di raggiungere un ideale di perfezione, il risultato può essere frustrante anziché liberatorio. Di conseguenza, è fondamentale liberarsi dalle gabbie del giudizio esteriore per vivere la disciplina come uno spazio dove sviluppare consapevolezza e presenza mentale. Nel corso dell’anno, in diverse città italiane, emergono iniziative come il progetto Diversity Yoga, promosso da Francesca Savoldelli e Paola Ubbiali, che si propone di abbattere pregiudizi e di creare ambienti accoglienti per ogni corpo e sensibilità.
Lo yoga che sfida gli stereotipi degli asana “perfetti” e dei social
La pressione a mostrare una pratica “perfetta” è aumentata con i social network, dove spesso si associa lo yoga alla capacità di eseguire posizioni complesse e alla conformità a canoni estetici precisi. Un maestro incontrato qualche tempo fa ha commentato che il vero yoga tornerà solo quando scompariranno i social. Questo perché la sovraesposizione ha portato a una rappresentazione limitata e filtrata di cosa significhi veramente praticare. In realtà, la disciplina invita a un rapporto più profondo con se stessi, distaccandosi dall’idea dell’esibizione e del giudizio esteriore.
Lo yoga non è la ricerca di un’asana perfetta ma il modo in cui si arriva a quella posizione e quello che succede dentro il corpo e la mente. È un processo di sottrazione, dove si eliminano giudizi e modelli rigidi per aprirsi alle possibilità di movimento e ascolto profondo. Francesca Savoldelli sottolinea che il rischio di giudicarsi costantemente può trasformare la pratica in un’esperienza negativa, mentre concentrarsi sulla sensazione del movimento e sulle emozioni che la posizione suscita porta a un benessere che si riflette anche nella vita quotidiana. Un dettaglio che sfugge a chi vive in città è proprio questo equilibrio sottile tra esterno e interno, tra forma e contenuto.
Diversity Yoga non si limita a essere un progetto divulgativo ma opera anche in contesti complessi, come i reparti di neuropsichiatria infantile in alcune strutture italiane, dove lo yoga diventa uno strumento di supporto per persone con disturbi come Dca/Dna. Questa applicazione concreta mostra come la disciplina possa adattarsi e sostenere
